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Alzheimer, un nuovo farmaco in grado di rallentare la malattia

Un nuovo farmaco sperimentale, chiamato donanemab, è in grado di rallentare la progressione della malattia di Alzheimer aiutando così sia a ritardare l’aggravamento sia a preservare la capacità di compiere normali attività quotidiane. È il risultato a cui è giunta una sperimentazione clinica di fase III i cui dati sono stati raccolti e pubblicato sul Journal dell’American Medical Association.

Il farmaco in questione è un anticorpo monoclonale in grado di rimuovere la beta-amiloide, la proteina alla base delle placche caratteristiche della malattia.

La sperimentazione, denominata ‘Trailblazer-Alz 2’, ha coinvolto più di 1.700 pazienti con Alzheimer in fase iniziale, che hanno ricevuto il farmaco o un placebo. Dopo circa un anno e mezzo, nei malati trattati con donanemab, la malattia era progredita un po’ alla volta di circa il 35% nei pazienti con forme più precoci e del 22,3% in tutti quelli esaminati.

Questi dati fanno capire che, spiegano i ricercatori, c’è stato un rallentamento di 4,36 mesi della patologia nel complesso. Inoltre, in circa la metà dei pazienti trattati con il nuovo farmaco la malattia non ha mostrato peggioramenti clinici per almeno un anno, rispetto al 29% dei pazienti che avevano ricevuto il placebo. I risultati della sperimentazione, in parte già anticipati a maggio, arrivano a pochi giorni dalla piena approvazione da parte dell’Fda di lecanemab, farmaco con un meccanismo di azione simile a donanemab.

Artrite reumatoide, raggiungere la remissione clinica consente al paziente di risparmiare più di 12.000,00 € l’anno

L’artrite reumatoide è una patologia reumatica infiammatoria e cronica che colpisce 23,7 milioni di persone in tutto il mondo e circa 300.000 in Italia, con 5.000 nuove diagnosi ogni anno, oltre a rappresentare un notevole peso a livello emotivo e fisico sulla vita delle persone, ha anche una ripercussione molto forte in termini di impatto economico sui costi diretti e indiretti della malattia.

L’impatto economico dell’artrite reumatoide è dunque molteplice: da un lato i costi diretti caratterizzano il percorso assistenziale del paziente all’interno del SSN, con ricoveri ospedalieri, cure infermieristiche, prestazioni specialistiche, fisioterapia, dispositivi ortopedici e farmaci; dall’altro, una persona affetta da AR non sempre riesce a lavorare a pieno regime, con conseguente riduzione della produttività o, in molti casi, con relativo ricorso alle prestazioni fornite dal sistema previdenziale, come assegni ordinari di invalidità, pensioni di inabilità e indennità di accompagnamento (costi indiretti).

AbbVie ha presentato oggi, presso la Sala Caduti di Nassirya del Senato, i risultati di un’analisi di cost-of-illness condotta dall’Università Cattolica del Sacro Cuore per determinare l’impatto economico legato alla gestione del paziente adulto con AR in fase attiva da moderata a severa. Uno studio che porta a considerare la remissione clinica della malattia come un obiettivo comune per il reumatologo e per il paziente che consentirebbe di ridurre il peso economico per il SSN e per il paziente.

“Si tratta di una patologia che può provocare dolore intenso alle articolazioni, gonfiore, rigidità e perdita di funzionalità, provocando conseguenze invalidanti. Generalmente colpisce le mani, i piedi e i polsi e un sintomo generale è la stanchezza. I pazienti possono avere improvvise riacutizzazioni, ovvero periodi in cui i sintomi peggiorano, difficili da prevedere – spiega il Prof. Gian Domenico Sebastiani, Presidente della Società Italiana di Reumatologia (SIR). La remissione clinica è un obiettivo di primaria importanza per il reumatologo e, soprattutto oggi che abbiamo ampliato l’armamentario terapeutico, raggiungere la remissione è possibile – conclude il Prof. Sebastiani”.

L’artrite reumatoide è una patologia cronica, dalla quale non è possibile guarire. Tuttavia, nel corso degli ultimi 20 anni, i progressi ottenuti hanno consentito a molti pazienti di raggiungere la remissione, che può essere definita come la condizione in cui i segni e i sintomi della patologia sono completamente assenti o comunque si manifestano raramente” – dichiara il Prof Fausto Salaffi, Professore Associato di Reumatologia presso la clinica Reumatologica dell’Ospedale di Jesi (Ancona). “I pazienti in remissione – continua il Prof. Salaffi – hanno una qualità di vita migliore, una maggiore funzionalità fisica e anche una superiore capacità lavorativa rispetto ai pazienti con bassa attività di malattia . Il reumatologo dovrebbe sempre applicare un controllo stretto della patologia, consentendo al paziente di raggiungere la remissione in tempi rapidi”.

In Italia, il burden economico associato all’artrite reumatoide supera una spesa media annua di 2 miliardi di euro; di questi, circa 931 milioni sono attribuibili a costi diretti sostenuti dal SSN (45% del totale peso economico), circa 205 milioni sono a carico dei pazienti in termini di costi diretti non sanitari e circa 900 milioni di costi indiretti sono attribuibili a perdita di produttività per giornate di lavoro perse o prestazioni previdenziali.

“I risultati dell‘analisi rappresentano i primi dati italiani sul valore economico della remissione nell’AR – dichiara il Prof. Americo Cicchetti, Professore Ordinario di Organizzazione Aziendale alla Facoltà di Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e Direttore di Altems. In particolare, vogliamo soffermarci sull’impegno economico che grava sulle spalle sia del paziente che del caregiver: la mancata remissione nell’AR, soprattutto nelle forme più severe della patologia, causa ad esempio assenteismo e perdita di produttività, sia per il paziente che per il caregiver: il primo può arrivare a perdere più di 5 giornate lavorative al mese, circa 72 ore al mese, 892 l’anno quindi, che corrispondono ad una perdita economica di più di 12.000,00 € l’anno; il secondo si attesta sulle 25 ore al mese, 300 l’anno per una perdita economica di circa 450,00 € l’anno”.

Fondamentale il sostegno e il coinvolgimento delle Associazioni di pazienti.

“La remissione clinica deve rappresentare l’obiettivo prioritario nel trattamento dell’artrite reumatoide – afferma Antonella Celano, Fondatore e Presidente APMARR, Associazione Nazionale Persone con Malattie Reumatologiche e Rare. Essere in remissione non vuol dire aver sconfitto la patologia e ogni paziente la interpreta in modo differente: per alcuni coincide con la totale assenza di sintomi, altri invece la definiscono così quando manifestano solo riacutizzazioni occasionali. La remissione, in particolare quando è continua e duratura, consente a noi persone affette da AR di vivere una vita normale, potendo continuare a lavorare e senza dover rinunciare a qualcosa anche dal punto di vista sociale”.

“L’obiettivo delle associazioni di pazienti è di supportare e aiutare concretamente tutte le persone affette da malattie reumatiche – prosegue Silvia Tonolo, Presidente ANMAR (Associazione Nazionale Malati Reumatici). Il percorso che porta all’accettazione della patologia è lungo e tortuoso, parlare di AR costituisce spesso un tabù anche perché è una patologia non ancora molto conosciuta, al contrario delle malattie cardiovascolari o delle patologie oncologiche. Incertezza, frustrazione oltre che dolore e affaticamento incidono in diversa misura sulle persone; per questo è di vitale importanza il confronto aperto e diretto tra medico e paziente che deve avere come obiettivo principale la remissione clinica della malattia”.

“L’Italia, grazie all’impegno e alla competenza dei nostri clinici, è in prima linea nella lotta all’artrite reumatoide. Ma dobbiamo fare ancora di più – ha dichiarato l’Onorevole Simona Loizzo, XII Commissione Affari Sociali della Camera dei deputati – le Istituzioni, infatti, lavorando al fianco di società scientifiche, associazioni di pazienti e aziende, possono contribuire in modo sostanziale non solo garantendo maggiori risorse ma anche promuovendo misure a sostegno delle persone che convivono con patologie così invalidanti”.

L’incontro è stato anche l’occasione per presentare “Complete the Picture – Non accontentarti di una vita a metà: parla con il tuo reumatologo”, la campagna informativa sulla AR promossa da AbbVie e realizzata con il patrocinio di APMARR e ANMAR, incentrata su www.missioneremissione.it, un sito web in cui è possibile trovare informazioni sulla patologia e consigli pratici per la sua gestione quotidiana, video di approfondimento con reumatologi, nutrizionisti, psicologi e fisiatri.

“L’idea della creatività della campagna, che propone una chitarra tagliata a metà, nasce dalla consapevolezza che vivere con l’artrite reumatoide non sia semplice e costringe a fare delle rinunce, non riuscendo a vivere a pieno la propria vita – conclude la dott.ssa Annalisa Iezzi, Direttore Medico di AbbVie. Troppi pazienti con artrite reumatoide non raggiungendo la remissione della malattia sono costretti a vivere una vita a metà, proprio come la chitarra della campagna. Siamo orgogliosi di portare avanti questa iniziativa di sensibilizzazione e fermamente convinti che il lavoro congiunto tra aziende, clinici, Associazioni di pazienti e Istituzioni sia fondamentale per migliorare la qualità di vita delle persone affette dalle patologie reumatologiche”.

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Congresso Cipomo presentazione di 2 survey: la prima sul DM 77 e la seconda condotta sui pazienti che promuovono le oncologie italiane

La deospedalizzazione e quindi la cura sul territorio potrebbero migliorare la qualità di vita dei pazienti oncologici: la possibilità di essere seguiti fuori dall’ospedale viene infatti considerata dal 30,7% degli assistiti come un’opportunità per sentirsi più liberi e a proprio agio e per qualcuno anche di sentirsi meno malato (per il 10,8%). Tuttavia, circa il 30% la percepisce con timore e pensa che potrebbe “non essere curato al meglio”, quasi il 13% teme di non poter più essere visitato in ospedale mentre il 5,27% ha paura di essere abbandonato.

E così, per effettuare le visite di controllo dopo le terapie, il 59,67% dei pazienti oncologici vorrebbe essere seguito in ospedale dall’oncologo, il 5,47% dal medico di famiglia, il 35,4% da entrambi e solo il 9,45% da un possibile oncologo del territorio.

È questa la fotografia scattata da una Survey condotta dal CIPOMO, il Collegio Italiano Primari Oncologi Medici Ospedalieri su 1.443 pazienti oncologici di tutte le regioni italiane, i cui dati preliminari sono stati presentati in anteprima al XXVII Congresso Nazionale “L’Oncologia tra i successi di oggi e i traguardi di domani” organizzato a La Spezia dal 18 al 20 maggio, presieduto da Carlo Aschele, Direttore Dipartimento Oncologico ASL 5 Liguria (La Spezia) e Consigliere Nazionale CIPOMO, Monica Giordano, Direttore SC Oncologia Ospedale Sant’Anna (Como) e Segretario Nazionale Cipomo, e Luigi Cavanna, Presidente CIPOMO. Obiettivo dell’indagine è stato quello indagare il gradimento dei pazienti oncologici sul DM77 che riforma la sanità territoriale.

“Il Decreto Ministeriale 77, con fondi del Pnrr, ha aperto le porte alla deospedalizzazione per i malati cronici e ha definito le strutture territoriali dove verranno erogate una serie di prestazioni che saranno gestite da medici di base e/o personale infermieristico – spiega Sandro Barni, già Direttore di oncologia all’Asst BG Ovest Ospedale di Treviglio e primo autore della ricerca – per quanto riguarda l’oncologia, non sono ancora state stabilite le tipologie di prestazioni e le modalità di coinvolgimento dell’oncologo. Soprattutto nessuno ha mai chiesto cosa ne pensano i pazienti. Per questo abbiamo lanciato la Survey che ha evidenziato alcuni problemi di cui bisogna tener conto nell’attuazione pratica del DM77”.

L’indagine ha coinvolto 1.443 pazienti con un’età media di 64 anni (il 58% donne, il 42% maschi) ai quali sono state rivolte 11 domande relative a quali attività, con la stessa sicurezza ed efficacia, a loro parere potevano essere svolte fuori dall’ospedale e dove; da chi si vorrebbe essere seguiti; qual è la sensazione di essere seguiti vicino casa; qual è il disagio maggiore quando si va in terapia; qual è il tempo massimo o la distanza tollerabile per la terapia e se la telemedicina o la posta elettronica favoriscano il passaggio all’assistenza territoriale.

Dalle risposte dei pazienti è emerso che le cure sul territorio posso apportare dei benefici, ma a condizione di poter mantenere uno stretto rapporto con l’oncologo ospedaliero e con la collaborazione del Medico di medicina generale. A parità di sicurezza ed efficacia delle cure, il 19,1% pensa che accetterebbe di effettuare fuori dall’ospedale la chemioterapia orale, il 26,68% il follow-up (FU), il 19,15% alcune terapie parenterali, il 32,16% gli esami di base. Il 21,83% preferisce il domicilio, il 36,31% una struttura sanitaria vicina a casa, il 37,54% l’ospedale.

Per quanto riguarda l’utilizzo di nuovi strumenti tecnici, come la telemedicina e la posta elettronica, per favorire la deospedalizzazione, il 44,15% li vede di buon occhio, ma c’è anche chi diffida (circa il 16%) e il 30,7% non sa rispondere.

La Survey ha anche indagato su quali siano le criticità legate al recarsi in ospedale per le terapie: il 41% punta il dito sui tempi di attesa, 20,4% sulla mancanza di parcheggio, il 17% sulla rotazione dei medici, il 12,76% sul tempo di viaggio. Da sottolineare inoltre che per il 39,5% dei malati oncologici la distanza non è importante, ma solo la continuità delle cure.

“La preferenza espressa dai pazienti per la prosecuzione delle visite di controllo con l’Oncologo in Ospedale ci ha inizialmente sorpresi – confermano Carlo Aschele e Michela Giordano – ma ad una lettura più attenta appare invece ben comprensibile in quanto riflette la forza delle relazioni di cura che si creano tra medico e paziente in oncologia, relazioni di particolare valore per quest’ultimo e quindi verosimilmente più strette rispetto a quanto avviene in altre malattie croniche, e che vanno assolutamente salvaguardate”.

“I pazienti oncologici – conclude Luigi Cavanna, Presidente CIPOMO – esprimono un certo numero di bisogni non nascondendo anche una serie di timori legati ad un’organizzazione sul territorio che va definita in maniera organica. Crediamo che le istituzioni debbano tenere conto dei pareri esternati dai pazienti”.

foto crediti orthomultimedica.it

La musicoterapia per rilassare durante un intervento chirurgico

La musica aiuta a superare il dolore e la preoccupazione, anche per chi si trova in ospedale per un delicatissimo intervento chirurgico. Le note musicali della musica, canzone del cuore possono infatti contribuire ad allontanare preoccupazioni e tensioni: si chiama musicoterapia e i benefici sono sorprendenti, raccontano nel nuovo episodio del podcast “Dire Fare Curare” di ab medica, un’azienda leader nella produzione di tecnologie medicali.

Il titolo della puntata è “Musica dottore!” e attraverso la voce di Matteo Caccia conduce gli ascoltatori tra le storie e le cure più eccellenti del nostro Bel Paese.

“Voglio sperimentarla per il bene dei miei pazienti” – Quando mi propongono qualche nuovo progetto spiega la Prof.ssa Rossana Alloni – dico: se è per aiutare i pazienti sì, sempre si. Dare una mano alla persona che sta male è la nostra mission, il nostro lavoro”.

Un esempio è quello di Giovanni che da ferrista si trova a ricoprire il ruolo di paziente: dopo un infarto, viene sottoposto a due coronarografie e alla notizia della necessità di un ulteriore intervento chirurgico.

Al momento del ricovero al Policlinico Universitario Campus Bio-Medico di Roma, dove è seguito dal professore Gian Paolo Ussia, Ordinario di Cardiologia e Direttore del laboratorio di cardiologia, ha scoperto come la sua passione per il jazz poteva aiutarlo a superare il tutto anche in sala operatoria. Cos’ ha indossato delle cuffie, durante l’intervento chirurgico e la voce della musicoterapeuta, che lo accompagnato, rilassandolo con un brano dietro l’altro. La scelta delle canzoni è stata vasta.

Ogni brano scelto seconda la patologia da trattare. Mentre il medico analizzava le coronarie, tra musicoterapeuta e paziente si è instaurato un rapporto di grande confidenza.

Tumore alla tiroide: quando la prevenzione gioca un ruolo fondamentale per la diagnosi precoce e terapia mirata

I carcinomi della tiroide sono causati dalla crescita anomala e incontrollata delle cellule che la costituiscono e insorgono prevalentemente nelle donne in età adulta.

Nel 90-95% dei casi le cellule coinvolte sono i tireociti, cioè le vere e proprie cellule della tiroide, riunite in gruppetti chiamati “follicoli tiroidei”, che producono gli ormoni, nella restante percentuale di casi vengono colpite le cellule parafollicolari – cellule presenti in misura quantitativamente minore e che producono un ormone chiamato calcitonina.

Sebbene i noduli tiroidei siano molto frequenti, solo il 10% circa di essi sono maligni e i tumori alla tiroide sono quindi da considerarsi tumori rari.

“Tra i fattori di rischio più importanti per lo sviluppo dei carcinomi della tiroide vi sono la familiarità e l’esposizione a radiazioni (anche radioterapia per altre neoplasie) – afferma la Dott.ssa Laura Fugazzola, Responsabile Centro Tiroide – U.O. Endocrinologia e Malattie del Metabolismo – Auxologico San Luca, centro che è stato recentemente accreditato ad EURACAN (European Network for Rare Adult Solid Cancer).

“Sono note – continua la Dott.ssa Fugazzola – le alterazioni genetiche responsabili della quasi totalità dei tumori tiroidei. Tali alterazioni genetiche possono essere ricercate nel tumore o, in caso di forme familiari, nel sangue. In quest’ultimo caso, il rilievo del gene mutato nei familiari di un soggetto affetto indica la presenza di un tumore in fase iniziale o ne indica il futuro sviluppo, consentendo così di procedere precocemente all’asportazione della tiroide e portando così a completa guarigione”.

Il tumore alla tiroide spesso non si manifesta con alcun sintomo nella fase precoce della malattia perché cresce in maniera lenta e silenziosa. Il campanello d’allarme può essere rappresentato da un nodulo isolato nella ghiandola riscontrato alla palpazione; tuttavia non tutti i noduli sono segno di un tumore alla tiroide, anzi nella maggior parte dei casi sono solo l’espressione di un’iperplasia tiroidea (una manifestazione benigna che determina un aumento di volume della ghiandola).

La diagnosi di tumore maligno si avvale di dati anamnestici, in grado di fornire indicazioni sull’esistenza di altri casi nella famiglia del paziente e sulla velocità di accrescimento del nodulo, e dell’esame obiettivo che individuerà un nodulo duro e in qualche caso la presenza di linfonodi ingranditi in regione laterocervicale.

Gli esami del sangue sono importanti per determinare la funzionalità della tiroide mediante il dosaggio del TSH e consentono di valutare la calcitonina, un marcatore di carcinoma midollare della tiroide. L’ecografia della tiroide, per mezzo della tecnologia ad ultrasuoni, permette di descrivere le caratteristiche del nodulo e di visualizzarne i rapporti con le strutture normali della ghiandola mentre, come ultimo approfondimento diagnostico, e solo nel caso in cui si abbia necessità di stabilire la precisa localizzazione del tumore prima dell’intervento chirurgico, si possono effettuare una TC o una risonanza magnetica per osservare meglio il nodulo maligno, i rapporti con le strutture circostanti e le eventuali metastasi.

ph crediti inran.it

Per la prima volta donna guarita da Hiv

Per la prima volta una donna è guarita dall’HIV grazie a una cura effettuata tramite il trapianto di cellule staminali prelevate da un cordone ombelicale. Una svolta importante per la medicina e la ricerca scientifica mondiale. Che alimenta anche nuove speranze nell’ambito delle terapie per i pazienti affetti da Hiv.

La donna di mezza età e residente a New York, ha contratto l’HIV nel 2013. Col passare del tempo, l’infezione si è evoluta in tumore del sangue – leucemia mieloide acuta –, che l’ha portata a sottoporsi al trapianto a base di sangue cordonale, quattro anni dopo. I medici hanno presentato il caso martedì 15 febbraio 2022 alla Conferenza sui Retrovirus e le infezioni Opportunistiche a Denver, ma i risultati non sono stati ancora diffusi del tutto.

L’epatite C si può curare ma 280mila italiani ancora non lo sanno

“L’epatite C è un’infezione oggi guaribile. Abbiamo dei farmaci che permettono di eliminarla del tutto, somministrandoli per poche settimane e senza effetti collaterali – ha dichiarato la dottoressa Loreta Kondili, ricercatrice presso l’Istituto Superiore di Sanità -. Il problema è che molte persone che sono infette non sanno di esserlo – ha dichiarato ancora l’esperta. Si stima infatti, che ci siano quasi 280mila persone che non hanno alcun segno, ma che in passato sono state esposte a fattori di rischio, come l’utilizzo di droghe, le trasfusioni di sangue, tatuaggi, interventi chirurgici e trattamenti odontoiatrici quando queste procedure non erano fatte in sicurezza, e circa 100mila le persone con un danno severo del fegato da epatite C ancora non diagnosticato”.

L’Italia sarebbe l’unico Paese nel mondo a favorire lo screening, grazie ad un fondo creato ad hoc di 71,5 milioni di euro inizialmente dedicato alle popolazioni chiave, come utilizzatori di sostanze e detenuti in carcere, oltre alla fascia di popolazione tra i 30 e i 50 anni.

Secondo la dottoressa Kondili “uno screening efficiente per identificare l’infezione da epatite C sarà un vero traguardo che, però, non si deve fermare con il progetto sperimentale in atto. Per eliminare l’epatite C dal nostro Paese lo screening attivo deve proseguire tempestivamente anche per la popolazione oltre i 50 anni e per coloro che presentano fattori di rischio o che hanno un danno del fegato, la cui causa potrebbe essere l’epatite C, ancora non diagnosticata. L’invito alle istituzioni è quello di mettere in atto in modo efficiente lo screening per l’epatite C ampliando le popolazioni che possono usufruirne gratuitamente per raggiungere gli obiettivi dell’Oms, che punta ad eliminare l’epatite C come minaccia della salute pubblica entro il 2030”.

“Il Covid ha ritardato la terapia, la cura e anche i target di eliminazione dell’epatite C – ha concluso la ricercatrice e rappresentante dell’Iss -. Una stima da noi effettuata, indica che ci saranno a 5 anni oltre 500 morti Hcv correlati solo per sei mesi di ritardo della cura e dello screening, ora siamo ben oltre! Il messaggio è quello di non fermarsi, di riprendere il ritmo di screening e di terapia perché l’epatite C è una malattia spesso silente ma abbiamo gli strumenti per sconfiggerla”.

Sale di 5 anni sopravvivenza per il melanoma

Sale di 5 anni, la sopravvivenza nei maschi per melanoma.

Un successo, che è stato osservato per la prima volta in assoluto in Italia e in Europa sulla popolazione generale, grazie all’uso comune di nuovi farmaci per la terapia mirata e per l’immunoterapia nei pazienti con melanoma avanzato e che pertanto non è nemmeno operabile.

È questo il risultato a cui è giunto uno studio congiunto dell’Airtum, l’Associazione dei registri tumori italiani, coordinato dal Registro tumori della Romagna, presentato in anteprima al XXVII Congresso nazionale Imi, l’Intergruppo melanoma italiano, in corso a Torino.

La ricerca che ha vinto l’Elvo Tempia Special Prize 2021 e che presenta molte novità presentate ed illustrate nel corso dell’incontro, tra cui l’uso dell’intelligenza artificiale e delle teleconsulenze genetiche, che durante il lockdown sono aumentati all’Irccs Policlinico San Martino di Genova (al quale è integrato l’Imi) del 34%.

Dallo studio fatto i ricercatori rivelano che solo in Italia tra il 2003 e il 2017, ha inciso tantissimo la la diagnosi precoce.

Inoltre è emerso anche che se un melanoma, ha uno spessore sottile, il paziente avrà una sopravvivenza migliore.

Inoltre con la terapia adiuvante cambia radicalmente il volto della chirurgia del melanoma e del carcinoma squamocellulare avanzato. Negli ultimi due anni i farmaci somministrati allo scopo di ridurre il rischio di recidiva hanno migliorato la sopravvivenza dei pazienti ed hanno permesso una chirurgia più mirata: ad oggi sono diminuiti dell’80% gli interventi sui linfonodi sentinella positivi con metastasi microscopiche, sono calate le dissezioni linfonodali inutili, mentre sono incrementate notevolmente le metastasectomie di pazienti un tempo ritenuti inoperabili. “La chirurgia del melanoma – spiega Roberto Patuzzo, Chirurgo presso la Divisione Melanoma e Sarcoma dell’Istituto Nazionale Tumori di Milano – è diventata sempre più mirata e complessa poiché sono cambiate le indicazioni grazie alle terapie adiuvanti, con il risultato che si è modificata la tipologia del paziente ricoverato”.